Perché si presenta un libro?

È mercoledì notte, le emozioni della serata mi girano in testa mentre la strada è un tunnel di luce che buca l’oscurità della campagna. Sono di ritorno da una presentazione del mio ultimo romanzo, Sopra ogni cosa, in una libreria storica della mia città, Reggio Emilia. Non è la prima pubblicazione eppure, reduce da due anni di pandemia in cui ho partecipato a un paio di incontri da remoto, mi ero disabituata agli eventi in presenza e arrugginita a tal punto da arrivare a pensare: in fondo, la lettura è un viaggio intimo e solitario, così come lo è la scrittura, in cui l’autore mette nero su bianco tutto ciò che ha da dire su quella storia. Allora perché si presentano i libri, (soprattutto se non si è uno scrittore „televisivo“ e si rischia di ritrovarsi davanti a una platea di tristi seggiole vuote)? Messa da parte quella che non era altro che agitazione, la serata è stata piacevole, accogliente, con una partecipazione prettamente femminile, in cui si è parlato dei temi del libro, il forte legame tra una ragazza italiana e un giovane siriano, entrambi emigrati in Germania. Dunque si è parlato di integrazione, interculturalità, ostacoli linguistici, senso di appartenenza, e su come conciliare le due vite che spesso si creano, una in patria, l’altra nel luogo di adozione. Alla fine Maria Rosaria Corchia, la giornalista che dialoga con me, mi chiede a chi voglio dedicare il romanzo e rispondo che è dedicato a tutti coloro che hanno conosciuto o conoscono l’esperienza dell’emigrazione all’estero, in tutte le sue forme. Melissa, una mia ex compagna di università che non vedevo da alcuni anni, alza la mano dalla seconda fila e mi dice una cosa che aprirà un dibattito appassionante tra le presenti: – Sai, noi che abbiamo fatto l’Erasmus in un’altra nazione europea ci riconosciamo perfettamente nella protagonista della storia, ma credo che possa farlo anche chi non è espatriato. Per esempio, quando la mia azienda è andata in crisi e mi sono trasferita a Vicenza per lavoro, ho avuto un vero shock culturale quando in ufficio, per la pausa caffè alle dieci e mezza di mattina, i colleghi hanno stappato una bottiglia di vino. In Inghilterra non mi era mai successo!
A quel punto interviene Emanuela, una donna di Torino seduta in prima fila. – È verissimo! Io durante gli studi abitavo a Venezia, e avevo una padrona di casa anziana che preferiva essere pagata in contanti e non tramite bonifico. Così, una volta al mese bussava alla mia porta per ritirare i soldi dell’affitto. Una volta è passata di mattina presto, allora le ho detto: “Entri pure, le offro un caffè” e lei mi ha risposto “No no, grazie, ho già bevuto il mio bianchino!” Erano le otto!
La discussione si è fatta esilarante ed è virata sulla questione linguistica: sempre Melissa racconta dello smarrimento quando i suoi colleghi discutevano di affari in stretto dialetto veneto. “Non ci si capiva niente! Era davvero una lingua straniera!”. Emanuela non solo annuisce, ma aggiunge: “io ho scoperto che alcune parole che credevo fossero italiane, sono usate solo a Torino”. E Maria Rosaria che ha origini marchigiane, conferma: “Mi è accaduta la stessa cosa qui a Reggio Emilia. Sono entrata in salumeria e ho chiesto al salumiere di tagliarmi della mortadella “erta”. Lui mi ha pregato di ripetere mentre io continuavo a dire “Erta! Erta!” domandandomi quale fosse il suo problema. Significa “spessa” ed ero convintissima che fosse italiano e non dialetto della mia zona. Da qui sono emerse tante parole come “burazzo” (strofinaccio) o “panno” (coperta), “stufo” (stanco) terminologie regionali che possono destare qualche equivoco in altre parti d’Italia.
Ho ripensato alle mie esperienze. Ho vissuto in diversi paesi all’estero ma mai a lungo in altre città italiane. Durante gli studi universitari a Modena non rimanevo là a dormire come tanti altri studenti fuori sede. Ho fatto la vita da pendolare. Tutti i giorni mi alzavo all’alba e tornavo a ora di cena stravolta dopo aver preso due treni, quasi sempre in ritardo. Ripensandoci, non ho mai conosciuto Modena come avrebbe potuto farlo una ragazza di Bari o di Bolzano che divide un appartamento insieme ad altre compagne. E lei probabilmente, si è fatta le stesse domande che mi sono fatta io in Germania, pur restando nella sua madrepatria. Allora mi è stato chiaro che il libro non parla solo agli espatriati, ma a tutti coloro che hanno cambiato luogo, dalla provincia alla città, dalla montagna al mare, dalla casa in cui sono cresciuti a quella che li ospita, e si sono messi in gioco.
Mentre guidavo lungo le ultime curve, ho trovato la risposta al perché un autore presenta il suo libro. Per farsi conoscere? Sì. Per far in modo che più persone leggano il libro, lo acquistino, lo regalino? Certo. Ma non è tutto. Lo fa per aprirsi a nuove storie di vita, ascoltare i pensieri di altre persone, capire nuovi punti di vista, cambiare prospettiva. In poche parole, per continuare a imparare.